lunedì 28 settembre 2009

DIFFERENTE E' LA REALTA' (V - Sogno)

Il sonno fu presto compenetrato dal sogno ed Alëša trascorse un'agitatissima notte, nel territorio tra sonno e veglia, dove i confini tra sogno e realtà sono più flebili.
Si vide e si riconobbe nettamente nella sua figura umana. Era a torso nudo e il suo fisico era nettamente modellato da evidenti fasci muscolari, ma guardandosi poi nell'interezza si accorse che i suoi arti luccicavano di un brillante colore giallognolo. La pelle rosea del viso iniziava a scintillare di riflessi metallici e man mano tutto il corpo stava assumendo le sembianze di un automa meccanico. Contemporaneamente si vedeva nel letto della sua stanza, immerso in un sonno profondo, quando all'improvviso lungo la parete si materializzava un'ombra, i cui contorni delineavano un corpo femminile nudo, che cadeva a capofitto lungo la parete della stanza. Considerò l'evidenza che, se il sogno avesse vissuto di tempi e lunghezze reali, quell'ombra sarebbe dovuta arrivare ben presto a terra, ma nel mondo del sogno la discesa sembrava non avere fine. L'ombra si andava infine ad afflosciare sul suo corpo disteso, assumendone la piatta conformità, per poi iniziare a vorticare sul suo addome ed essere risucchiata al suo interno attraverso l'ombelico.
Il quadro dei soggetti si modificò in una nuova scena. Ora quella donna, nella sua completa nudità, aleggiava in una rete informatica, saltando da un campo all'altro di quella che doveva essere una mente cibernetica. Le linee della rete si intrecciavano in nodi inestricabili, su due piani paralleli, che naturalmente non si sarebbero mai toccati, ma tra loro funzionava un'interazione, congiunti com'erano da cilindri a rete che salivano in alto come colonne portanti di edifici, intrecciate di fil di ferro. La donna aleggiava nello spazio vuoto tra i due piani, in un volo orizzontale che avrebbe dovuto essere infinito; sotto il piano inferiore, in una figura speculare alla donna, volava lui, alla stessa velocità, ma aveva braccia e gambe meccaniche e il volto era umano solo per metà, dove l'altra metà era ricoperta di metallo.
La visione successiva era quella di un albero, un albero i cui rami erano filanti di energia e le foglie brillavano come lucciole. Si vide seduto sotto le fronde dell'albero, nella sua preferita figurazione di pastore che, mentre si riposa all'ombra, suona il flauto ed osserva i greggi al pascolo, in una cornice arcadica. Daniela era dall'altra parte del tronco, voltata verso l'altro lato, e gli parlava: “Tu sei in me e io sono in te”.
“Che dici, Daniela?”.
“Tu preferisci vedere il tuo riflesso allo specchio perché l'universo è asimmetrico. Quando sei solo ti vedi in uno specchio piano, che riflette raggi luminosi paralleli. Così è sempre stato per te, nel tempo, ed in ogni luogo e situazione. Lo spaziotempo ti è rimasto costante. Però in presenza di un'altra massa corporea lo spaziotempo viene curvato e quello che prima era una retta che descriveva un punto diventa una superficie. Su una superficie curva non valgono le regole razionali: la somma degli angoli di un triangolo può essere superiore a 180° ed è anche possibile procedere sempre nella stessa direzione ritornando dopo un certo tempo al punto di partenza.”
In quello che gli sembrava un discorso dai tratti filosofici oscuri, che non riusciva ad interpretare, Alëša era rimasto interdetto nel suo stesso sogno.
Daniela, in forma di entità immateriale, si stava prodigando sul suo corpo umano per farlo arrivare alla soluzione del problema che coinvolgeva entrambi. La sua coscienza lo indirizzava nettamente sul fatto di essere un uomo, contrapposto alla donna in natura di macchina, ma in quel momento onirico le parti si ribaltavano, perché lui vedeva Daniela umana come la prima volta che l'aveva vista, quando ancora non conosceva la sua vera realtà, mentre il suo altro sé assomigliava maggiormente ad uno di quei robot vecchio stampo che tanto lo spaventavano.
Continuava a vedersi specularmente nella figura di Daniela, che ora riconobbe, nuda e bella come non mai, mentre volava sul piano superiore al suo. Guardava con i suoi occhi robotici gli occhi di lei, di quell'azzurro così intenso che era sempre stato in grado di ammaliarlo. Entrambi correvano, di un moto uniformemente accelerato, sui due piani paralleli, e più aumentava la velocità più risultava evidente la curvatura dello spazio piano. I due piani paralleli iniziavano a curvarsi e l'intreccio di fibre verticali che formavano le colonne si incuneavano a spirale in un vortice che avvolgeva i due corpi. La veloce corsa sembrava dirigersi inesorabilmente verso una sfera dorata che si profilava da lontano e che rapidamente assunse i contorni dell'albero energetico. Seduto sotto l'albero c'era ancora lui, il giovane Alëša, pastore di greggi.
Guardò in alto le fronde dell'albero, che rilucevano di riflessi dorati, di un colore sempre più simile a quella tonalità bionda che ben conosceva. I rami filanti erano, in effetti, capelli, e sotto la bionda chioma c'era un viso, con gli occhi chiusi del sonno, e dietro ancora un intero corpo rannicchiato in
posizione fetale, che occupava l'intera chioma arborea. Gli occhi si aprirono, sfavillanti di quell'azzurro altrettanto noto ad Alëša. Sonja era entrata nel suo sogno.
“La macchina non ha in sé il sentimento della bellezza, è il nostro occhio che la costruisce.” Era indubbiamente la sua voce e il volto era nitidamente il suo, e gli sorrideva dall'alto.
"Sonja?!"
"Non c'è tempo, Alëša, devi fare la tua scelta, devi guardare nella giusta direzione con i tuoi occhi di giovinetto, finché puoi."
"Cos'è? mi stai mettendo alla prova? cosa devo guardare? e perché finché posso?"
"Non ti vedi? Stai sognando di dormire nella tua stanza a sognare di essere una macchina. Vuoi essere uomo o macchina? Non puoi essere entrambe le cose e devi fare una scelta. Ti piace assomigliare a una macchina per poter possedere la macchina, però non ci trovi l'anima e subito dopo non ti piace più. Sappi che l'amore puoi vederlo solo con occhi umani. Quando l'altro te, ormai mutato, arriverà qui, e ci sta arrivando a velocità supersonica, non sarai più in tempo e resterai un essere liminale.”
“Cosa significa?”
“Significa che rimarresti costretto nel tempo ricorsivo che ti sei costruito. Ti piace viverci, perché ti sembra di conoscere tutto, dato che ad ogni fine corsa, come in una routine, ricominci daccapo. Ma questa non è la vita reale. Da giovane conoscevi la natura, ora invece sai rappresentare la natura mediante formule. Non esistono però abbastanza formule per raggiungere la conoscenza del tutto. La natura ha in sé tutte le formule. Usa la tua natura umana, usala Alëša!"
"Che devo fare?"
"Guarda nella giusta direzione. Non pensare allo spirito. Guarda il corpo. Il corpo, Alëša!"
Allora distolse lo sguardo dalla chioma dell'albero e guardò più in basso. Voltandosi, incrociò il viso di Daniela, che dall'altra parte dell'albero si era girata contemporaneamente a lui. Le notò quella deliziosa e quasi impercettibile voglia bianca che aveva sulla fronte, appena sotto l'attaccatura dei capelli nerissimi, quindi le guardò le sopracciglia folte, le lunghissime ciglia e poi, più intensamente, i suoi occhi, che risposero altrettanto intensamente allo sguardo. Anche lei aveva occhi bellissimi: le pupille erano dilatate e la piccola cornice azzurra dell'iride era brillantissima, nettamente staccata dal bianco della sclera. Avvicinarono le mani che si congiunsero e andarono a stringersi.
Il folle volo dei loro doppi li raggiunse in quel momento, sollevandoli verso l'alto e portandoli a confluire in cima alla chioma dell'albero, dove andarono a fondersi in un bailamme di luci turbinanti di bianco e d'azzurro.
Era l'attimo che precede la veglia e Alëša sognò di essere una farfalla dalle ali bianche e azzurre che svolazzava felice. Sonja, seduta in un ameno giardino, l'accoglieva sorridente sul dorso della sua mano.
Al risveglio si ritrovò nel letto e toccandosi le membra prese coscienza di essere in carne e ossa. Era molto triste.

5 - continua

mercoledì 23 settembre 2009

David Letterman e Barack Obama



Domanda di Letterman (trad.): "Ho già cominciato a notare che quando si tengono le riunioni politiche circolano vetriolo e animosità e rabbia e si urla e ci si spinge, insomma comportamentei sgradevoli. Insomma. Non so se è solo un luogo comune, ma se ne è parlato, qua e là, e qualche giorno fa Jimmy Carter ha riferito proprio di questi comportamenti ipotizzando che forse il disagio o questo poco decoro sono radicati nel razzismo. Ci ha preso o è solo una cosa buttata lì tanto per dire?"
Risposta di Obama: "It's important to realize that I was actually black before my election"
"Really?"
La prima volta di un presidente in carica al David Letterman show.
Grande giornalismo!

The age of stupid - trailer



"L'era della stupidità" è il documentario di 90' prodotto da Greenpeace per la regia di Franny Armstrong e Lizzie Gillett, che denuncia i rischi legati al cambiamento climatico. Occorre procedere speditamente verso una nuova via ambientalista e, sperando nel prossimo vertice di Copenaghen, queste denunce dal tono severo sono soltanto l'onesta verità sullo stato attuale delle cose.

martedì 22 settembre 2009

La mariposa




Con l'occasione dell'inizio dei nuovi corsi di tango, quest'anno spostati nella nuova sede di Cattabrighe, faccio ascoltare il brano "La mariposa", dell'orchestra di Osvaldo Pugliese, che Alejandro e Marella hanno proposto a conclusione della serata di presentazione tenutasi ieri sera. Ci tengo ad essere presente ogni anno alla prima lezione, quando Ale si esprime al meglio nella danza e cerca di ispirare ai nuovi allievi lo spirito poetico che anima le serate delle "milongas" che è solito allestire.

mercoledì 16 settembre 2009

lunedì 14 settembre 2009

DIFFERENTE E' LA REALTA' (IV - Robot)

Alëša aveva già visto numerosi ginoidi, nuovi di fabbricazione, ma come quello mai, così perfettamente somigliante all'essere umano. Non si stancava di studiare la struttura fisica di quel ginoide, cercando qualche particolare che ne tradisse la fabbricazione meccanica, senza trovarne.
«Stiamo andando al Sacrario di Trento» iniziò a dire Daniela mentre guidava.
«Come mai al Sacrario?» chiese Alëša, finalmente distogliendo lo sguardo da lei e volgendosi alla strada, che scorreva veloce sotto le ruote dell'auto.
«Al Sacrario è conservato un vecchio robot, e pensiamo che studiando le sue caratteristiche potremmo ricavarne qualcosa di utile»
«Vecchio... quanto? Da quanto tempo si costruiscono i robot?» chiese di nuovo Alëša.
«Da più tempo di quanto tu possa immaginare» replicò Daniela rivolgendosi a lui.
Arrivarono al cimitero monumentale. Il Sacrario si trovava al suo interno, costruito in stile neoclassico e circondato da colonne di marmo. Per accedervi, Daniela e Alëša scesero la scalinata di accesso e poi, attraverso una scala elicoidale, giunsero all'ingresso della cripta. Solitamente la cripta rimaneva chiusa alle visite, ma il permesso speciale di cui disponevano permise loro di entrare.
«Avrai notato che qui non esistono ascensori. In alcune zone, qua da noi, c'è ancora il culto del primitivismo.» Ogni volta che gli rivolgeva la parola quel ginoide mostrava la sua natura di macchina: ogni ragionamento era precisissimo e dotato di una logica incontestabile. Il linguaggio freddo e calcolato non presentava, a suo vedere, alcuna curvatura di umanità. Così differente da Sonja, lucida anche lei, ma dotata di ben altra vivacità mentale, che la portava a spingere il suo pensiero verso temi mai esplorati e possibilità ignote. Ginoide perfetto, quello, ma non era Sonja.
La distrazione di Alëša dovette venir meno, una volta entrati nella cripta. Di fronte a lui, con gli occhi accesi e luminosi, le braccia alzate a metà, c'era una figura umana dallo scintillio metallico giallognolo.
«E' un robot» disse intimidito Alëša, «ma è metallico.»
«Peggio», disse Daniela, «non è vivo»
«Ma quando è stato costruito?» chiese Alëša avvicinandosi a quell'essere inanimato, timidamente toccandone le rigide estremità.
«Durante gli anni che vanno dal 1910 al 1915. In quel periodo in Italia si respirava un grande fervore intellettuale. Il Futurismo investiva tutti i campi dell'arte, coinvolgendo anche riferimenti sociali e politici. Esaltava la fiducia nel progresso, e il futuro doveva essere lì e subito. La costruzione di un automa come questo ne è un esempio»
«Non sapevo che ne fosse stato realizzato uno. Se ce ne fossero stati, al centro ricerche della compagnia dove lavoravo, avrei dovuto saperlo.»
«Solo in Italia ne sono stati realizzati. Qui, la ricerca del nuovo portò al modernismo tecnologico, mentre da voi in Russia fu l'elemento sociale a prevalere. Che si sappia, comunque, questo è l'unico esemplare esistente, di questo tipo, anche se si dice che da qualche parte ne esista un altro, di un tipo più evoluto.»
«Ma che aiuto può darci un robot morto? Insomma, disattivato.»
«I primi robot realizzati erano completi, comprendevano tutti i sentimenti umani. Riesci a seguirmi?»
«Sì. Vuoi dire che ha in sé anche il sentimento d'amore?»
«I robot furono costruiti con la compresenza di sentimenti buoni e cattivi, quindi amore e odio, schiettezza e falsità, eccetera. Poi però, nel più banale travisamento della tematica futurista, la commissione che doveva approvarne la produzione ordinò di cancellare dalla mente robotica il sentimento d'amore, ritenendo che i robot dovessero essere prodotti per scopi esclusivamente bellici, in previsione della guerra che stava per scoppiare. Tentarono invece di programmare i robot ai fini della riproduzione futuristica della specie, con riproduzione sessuata, sapendo che la guerra avrebbe abbattuto la parte migliore della generazione dell'epoca.»
«E ci riuscirono?» chiese Alëša, intimorito da quella rivelazione.
«No, i robot non possono riprodursi.»
«Esiste però la possibilità che una macchina si autoriproduca?» la incalzava, Alëša, con le domande, tentando di coglierla in fallo.
«John Von Neumann, l'ideatore della famosa architettura per calcolatori elettronici, ipotizzò in un suo studio una macchina in grado di autoriprodursi, ma non è mai stato possibile realizzarla.»
«Come mai?»
«Per autoriprodursi, la macchina dovrebbe compiere un lavoro e quindi consumare energia. Per produrre una macchina simile a se stessa, la macchina dovrebbe utilizzare tutta la sua energia e dato che l'energia iniziale è limitata, questa scemerebbe con l'incremento del lavoro per non arrivare mai al compimento definitivo. Non esiste una macchina con energia inesauribile.»
Come ebbe finito, Daniela si avvicinò al robot, gli toccò le braccia, il dorso e la testa, cercando eventuali canali di collegamento, ma non ne trovò.
«Possiamo andare, non abbiamo più niente da fare qui» proferì seccamente il ginoide, invitando il suo collega a seguirla mentre prendeva la strada dell'uscita.
Alëša continuava a pensare, accanto a quel ginoide diventato ora improvvisamente silenzioso. Era impossibile accedere ai dati di quel robot, però forse ce n'era almeno un altro, dotato ancora di sentimento amoroso originale.
Questa spiegazione fornì, di ritorno dalla missione fallita, ma il capo gli disse che la strategia sarebbe cambiata. Ora doveva solo riposarsi da quella lunga giornata.
Solo, nella sua camera, Alëša si preparava a coricarsi. Pensava a Daniela, così bella, ma che probabilmente non sarebbe mai stata capace di amare. Si torturava cercando di capire cosa potesse servire, ad una mente ed un corpo automatici, per amare. Sarebbe bastato il programma corretto, che però ancora non era riuscito a trovare? Sarebbe bastata solo un'altra geniale equazione per sciogliere il bandolo e risolvere il problema dell'amore? Sapeva di non poterselo spiegare, che nemmeno per l'uomo è facile spiegarsi questo mistero. La mente di un ginoide del tipo di Daniela era programmata, ma era programmata anche per fare esperienza, e bastava che quella mente fosse stata lasciata libera di volare, priva dei rigidi vincoli della programmazione: allora sì che avrebbe potuto fare esperienza, perfino esperienza d'amore. I pensieri poi vagavano, e andarono a toccare la sua persona, lui stesso, così simile al robot nell'essere privo di esperienza, anche lui impossibilitato a scegliere, come a far parte di quel grande ingranaggio che con l'uso di una tremenda bugia facevano passare per realtà. Cercava di ricordare quando mai avesse potuto scegliere liberamente, perché ogni volta si sentiva stretto da vincoli, come se un programma dai contorni rigidi gli impedisse qualunque libera scelta. Forse l'aveva creato lui, quel programma, per sé, ma allora l'aveva creato per una persona che non conosceva perché, se stesso, non si era mai conosciuto veramente. E soprattutto riteneva di non aver mai conosciuto il vero amore, quindi come poteva scrivere un programma di cui non conosceva la variabile fondamentale? Pur continuando a tormentarsi con questi pensieri, dopo poco si addormentò.

4 - continua

giovedì 3 settembre 2009

Javier Girotto e Aires Tango "La Luna"

DIFFERENTE E' LA REALTA' (III - Daniela)

Alëša entrò nell'ufficio del capo: «Voleva vedermi, ingegnere?»
Il responsabile della produzione, un uomo sulla quarantina un po' grassoccio, dal viso rotondo che non aveva nulla di notevole tranne un'ampia fronte spaziosa, lo ricevette cordialmente. «Gradisce un aperitivo?» gli chiese, mentre estraeva dal digital-frigo due bottigliette tronco coniche dal caratteristico design mai mutato negli anni, il che rivelava come quel manager di un'azienda tanto futuristica ci tenesse a conservare le tradizioni.
«Sì, grazie! Con ghiaccio.» I 10 cl. della rossa bevanda colmarono i rispettivi bicchieri.
Una volta brindato all'incontro, l'ingegnere non perse poi tempo a delineare i termini del motivo per cui lo aveva convocato.
«Sono stati fatti grandi passi avanti in questi mesi, grazie alle risorse che tutti abbiamo impiegato nel progetto. Il sentimento d'amore fa ora parte della personalità dei robot che produciamo. Alcune unità di produzione sono già state consegnate e per un po' funzionano alla perfezione.»
«Per un po'?» intervenne Alëša.
«Sì, solo per un po', perché è vero che riescono ad instaurarsi relazioni tra umani e robot, però queste durano non più di qualche settimana»
«E poi?» chiese ingenuo Alëša che a seguito dell'isolamento nella baita sembrava divenuto estraneo ad ogni discorso imperniato sulla realtà quotidiana, figuriamoci per quel che poteva riguardare anche solo frammenti di discorso amoroso.
«E poi, e poi... finiscono nella pattumiera. Regolarmente l'androide o, più spesso, il ginoide, prendono e se ne vanno, lasciando il loro partner umano nella disperazione totale, peggiorando quindi la sua situazione, già penosa, che l'aveva portato alla richiesta di un robot di compagnia.»
«Non ero a conoscenza di questa situazione, ingegnere»
«No, non poteva esserlo infatti. Lei e la sua collega Sonja Ivànovna avete fatto un lavoro eccellente. Credo però che ora viviate un po' troppo isolati. Ciò è stato un bene finché il vostro lavoro doveva essere tutelato sotto un certo aspetto di privacy, ma ora che la robotica sta entrando prepotentemente nella vita quotidiana è giusto che entrambi vi caliate di più nella realtà. Credo che un vostro trasferimento avverrà prossimamente. Intanto ho pensato, per lo studio del problema di cui le parlavo, di affiancarle un aiutante.»
La novità stupì non poco Alëša, ormai abituato a lavorare braccio a braccio con Sonja. «Bè, non so come la prenderà Sonja»
«Le parlerò io, se preferisce»
«No, ingegnere». Tirò un profondo respiro. «Mi dica pure chi è il mio collaboratore»
«Passo subito alla presentazione». Spingendo un pulsante del telecomando che aveva sul tavolo, l'ingegnere attivò l'apertura della porta. «Ho il piacere di presentarle Daniela G. Olivetti.»
Appena la porta si aprì, Alëša non prestò più attenzione all'ingegnere e rimase inchiodato a guardare la donna che era entrata. Aveva capelli neri, lunghi fino alle spalle, e occhi azzurri. Indossava un paio di pantaloni attillati che scendevano fino al ginocchio e mettevano in evidenza la curva delle natiche; sopra, una guaina in spumite fosforescente cingeva e rivelava bei seni floridi e le lasciava scoperto un ventre piatto e dai contorni definiti. La bella linea degli occhi era tracciata da un lieve tocco di matita, mentre le palpebre erano sfumate di rosa; il resto del viso era di un candore lunare. Bellissima, e la sua aria severa e distaccata le conferiva quel tono di mistero che tanto lo affascinava.
L'ingegnere colse l'espressione inebetita del suo collega e lo scosse con un braccio: «Che bruna, eh?Uno schianto!»
L'aria stupita di Alëša, sorpreso di sentire un tale apprezzamento in presenza della ragazza, lo indusse a fare una precisazione. «Ah, come avrà capito, la G. sta per Ginoide.»

3 - continua