giovedì 11 febbraio 2010

L'uomo che verrà

1 commento:

Fabio ha detto...

Era difficile realizzare un film che trattasse di un efferato crimine di guerra come l'eccidio di Monte Sole (più noto come strage di Marzabotto) senza cadere in facili banalizzazioni. L'autore Giorgio Diritti ci è riuscito, raccontando "una storia", come tante di chi in quell'angolo di storia si è venuto a trovare. "Chi se ne frega della storia e di chi la fa" dice Armando, in un arcaico dialetto emiliano che al linguaggio della guerra è estraneo, essendo più adatto a quel mondo governato dal ritmo della terra e dal susseguirsi delle stagioni, che impone la mungitura quotidiana e che individua il tempo del raccolto e dell'uccisione del maiale. Armando è il padre di Martina, una bambina di otto anni che ha deciso di non far più sentire la sua voce da quando le morì sulle braccia il fratellino appena nato. Tutta la vicenda è vista con gli occhi di Martina, quindi è fatta non di parole, ma di ascolto di quelle parole che spesso diventano un "di più": non solo quando si tratta dell'incomprensibile idioma dei nazisti, ma anche quando sono espresse nel dialetto di quella civiltà contadina che reclama la propria terra e le proprie abitudini, che mostra la vera resistenza di popolo ogni volta che lotta per non morire di fame.
E' un film basato sul silenzio: somiglia al mutismo di Martina quello della natura indifferente, che diventa a tratti idilliaca quando il paesaggio bucolico
cattura l'immaginazione, e basta un campo di lucciole in una notte d'estate.
In un assurdo mutismo si svolge anche la battaglia tra tedeschi e partigiani (opera d'arte che ricorda le geniali sequenze di Kurosawa) in lontananza, e per un osservatore distante diventa incomprensibile quella morte che fa cadere i soldati come in una danza senza musica, almeno fino a quando il fragore tremendo della mitragliatrice non viene a rompere il silenzio e il male prende corpo nella forma di macchina. Solo la pietà può togliere voce e immagini alla deriva dell'umanità e la camera da presa che fugge al cielo sopra il tetto della chiesa sembra seppellire il simbolo votivo che sorvola.
Meglio fosse stato indifferente, invece qui l'uomo si snatura, consapevole del male che produce e in questo senso va letta quella che ritengo essere la frase chiave del film, pronunciata dall'ufficiale tedesco: "noi siamo quelli che ci hanno insegnato a essere". Ciò per capire come siano stati capaci i soldati delle SS a uccidere altri essere umani e continuare poi a fare gli uomini, nonostante tutto. E' evidente il confronto con la frase dell'anziano contadino("se siamo nati ignoranti, dobbiamo restare ignoranti").
Evitando ora di enfatizzare (come bene ha evitato il regista), è evidente come nessuna di queste due estremizzazioni sia giusta, mentre gli occhi con cui bisogna guardare ad un futuro di speranza sono quelli che osservano la pancia di una madre che contiene un mondo: un nuovo fratellino per Martina, vittima inconsapevole di una tragedia a lui sconosciuta. Anche a noi, nati dopo quegli eventi, la tragedia ci si può solo raccontare, perché la storia non sia dimenticata. Le parole allora tornano, sgorgano dal cuore in bocca a Martina, rinnovandosi nel suono di un'antica nenia che anticipa l'arrivo di una nuova stagione.

Visto martedì al cinema Loreto: voto ****