Alëša aveva già visto numerosi ginoidi, nuovi di fabbricazione, ma come quello mai, così perfettamente somigliante all'essere umano. Non si stancava di studiare la struttura fisica di quel ginoide, cercando qualche particolare che ne tradisse la fabbricazione meccanica, senza trovarne.
«Stiamo andando al Sacrario di Trento» iniziò a dire Daniela mentre guidava.
«Come mai al Sacrario?» chiese Alëša, finalmente distogliendo lo sguardo da lei e volgendosi alla strada, che scorreva veloce sotto le ruote dell'auto.
«Al Sacrario è conservato un vecchio robot, e pensiamo che studiando le sue caratteristiche potremmo ricavarne qualcosa di utile»
«Vecchio... quanto? Da quanto tempo si costruiscono i robot?» chiese di nuovo Alëša.
«Da più tempo di quanto tu possa immaginare» replicò Daniela rivolgendosi a lui.
Arrivarono al cimitero monumentale. Il Sacrario si trovava al suo interno, costruito in stile neoclassico e circondato da colonne di marmo. Per accedervi, Daniela e Alëša scesero la scalinata di accesso e poi, attraverso una scala elicoidale, giunsero all'ingresso della cripta. Solitamente la cripta rimaneva chiusa alle visite, ma il permesso speciale di cui disponevano permise loro di entrare.
«Avrai notato che qui non esistono ascensori. In alcune zone, qua da noi, c'è ancora il culto del primitivismo.» Ogni volta che gli rivolgeva la parola quel ginoide mostrava la sua natura di macchina: ogni ragionamento era precisissimo e dotato di una logica incontestabile. Il linguaggio freddo e calcolato non presentava, a suo vedere, alcuna curvatura di umanità. Così differente da Sonja, lucida anche lei, ma dotata di ben altra vivacità mentale, che la portava a spingere il suo pensiero verso temi mai esplorati e possibilità ignote. Ginoide perfetto, quello, ma non era Sonja.
La distrazione di Alëša dovette venir meno, una volta entrati nella cripta. Di fronte a lui, con gli occhi accesi e luminosi, le braccia alzate a metà, c'era una figura umana dallo scintillio metallico giallognolo.
«E' un robot» disse intimidito Alëša, «ma è metallico.»
«Peggio», disse Daniela, «non è vivo»
«Ma quando è stato costruito?» chiese Alëša avvicinandosi a quell'essere inanimato, timidamente toccandone le rigide estremità.
«Durante gli anni che vanno dal 1910 al 1915. In quel periodo in Italia si respirava un grande fervore intellettuale. Il Futurismo investiva tutti i campi dell'arte, coinvolgendo anche riferimenti sociali e politici. Esaltava la fiducia nel progresso, e il futuro doveva essere lì e subito. La costruzione di un automa come questo ne è un esempio»
«Non sapevo che ne fosse stato realizzato uno. Se ce ne fossero stati, al centro ricerche della compagnia dove lavoravo, avrei dovuto saperlo.»
«Solo in Italia ne sono stati realizzati. Qui, la ricerca del nuovo portò al modernismo tecnologico, mentre da voi in Russia fu l'elemento sociale a prevalere. Che si sappia, comunque, questo è l'unico esemplare esistente, di questo tipo, anche se si dice che da qualche parte ne esista un altro, di un tipo più evoluto.»
«Ma che aiuto può darci un robot morto? Insomma, disattivato.»
«I primi robot realizzati erano completi, comprendevano tutti i sentimenti umani. Riesci a seguirmi?»
«Sì. Vuoi dire che ha in sé anche il sentimento d'amore?»
«I robot furono costruiti con la compresenza di sentimenti buoni e cattivi, quindi amore e odio, schiettezza e falsità, eccetera. Poi però, nel più banale travisamento della tematica futurista, la commissione che doveva approvarne la produzione ordinò di cancellare dalla mente robotica il sentimento d'amore, ritenendo che i robot dovessero essere prodotti per scopi esclusivamente bellici, in previsione della guerra che stava per scoppiare. Tentarono invece di programmare i robot ai fini della riproduzione futuristica della specie, con riproduzione sessuata, sapendo che la guerra avrebbe abbattuto la parte migliore della generazione dell'epoca.»
«E ci riuscirono?» chiese Alëša, intimorito da quella rivelazione.
«No, i robot non possono riprodursi.»
«Esiste però la possibilità che una macchina si autoriproduca?» la incalzava, Alëša, con le domande, tentando di coglierla in fallo.
«John Von Neumann, l'ideatore della famosa architettura per calcolatori elettronici, ipotizzò in un suo studio una macchina in grado di autoriprodursi, ma non è mai stato possibile realizzarla.»
«Come mai?»
«Per autoriprodursi, la macchina dovrebbe compiere un lavoro e quindi consumare energia. Per produrre una macchina simile a se stessa, la macchina dovrebbe utilizzare tutta la sua energia e dato che l'energia iniziale è limitata, questa scemerebbe con l'incremento del lavoro per non arrivare mai al compimento definitivo. Non esiste una macchina con energia inesauribile.»
Come ebbe finito, Daniela si avvicinò al robot, gli toccò le braccia, il dorso e la testa, cercando eventuali canali di collegamento, ma non ne trovò.
«Possiamo andare, non abbiamo più niente da fare qui» proferì seccamente il ginoide, invitando il suo collega a seguirla mentre prendeva la strada dell'uscita.
Alëša continuava a pensare, accanto a quel ginoide diventato ora improvvisamente silenzioso. Era impossibile accedere ai dati di quel robot, però forse ce n'era almeno un altro, dotato ancora di sentimento amoroso originale.
Questa spiegazione fornì, di ritorno dalla missione fallita, ma il capo gli disse che la strategia sarebbe cambiata. Ora doveva solo riposarsi da quella lunga giornata.
Solo, nella sua camera, Alëša si preparava a coricarsi. Pensava a Daniela, così bella, ma che probabilmente non sarebbe mai stata capace di amare. Si torturava cercando di capire cosa potesse servire, ad una mente ed un corpo automatici, per amare. Sarebbe bastato il programma corretto, che però ancora non era riuscito a trovare? Sarebbe bastata solo un'altra geniale equazione per sciogliere il bandolo e risolvere il problema dell'amore? Sapeva di non poterselo spiegare, che nemmeno per l'uomo è facile spiegarsi questo mistero. La mente di un ginoide del tipo di Daniela era programmata, ma era programmata anche per fare esperienza, e bastava che quella mente fosse stata lasciata libera di volare, priva dei rigidi vincoli della programmazione: allora sì che avrebbe potuto fare esperienza, perfino esperienza d'amore. I pensieri poi vagavano, e andarono a toccare la sua persona, lui stesso, così simile al robot nell'essere privo di esperienza, anche lui impossibilitato a scegliere, come a far parte di quel grande ingranaggio che con l'uso di una tremenda bugia facevano passare per realtà. Cercava di ricordare quando mai avesse potuto scegliere liberamente, perché ogni volta si sentiva stretto da vincoli, come se un programma dai contorni rigidi gli impedisse qualunque libera scelta. Forse l'aveva creato lui, quel programma, per sé, ma allora l'aveva creato per una persona che non conosceva perché, se stesso, non si era mai conosciuto veramente. E soprattutto riteneva di non aver mai conosciuto il vero amore, quindi come poteva scrivere un programma di cui non conosceva la variabile fondamentale? Pur continuando a tormentarsi con questi pensieri, dopo poco si addormentò.
4 - continua