lunedì 10 agosto 2009

NON FA UNA PIEGA (parte 1: un lavoro di squadra)

NON FA UNA PIEGA
(I fatti narrati si sono svolti nell’immediato futuro)

program Nevermind(input, output);
var
n1,n2:integer;x1,x2,ris,life:real
begin
writeln('Inserisci n1');
readln(n1);x1=sin(n1);x3=cos(n1)
writeln('Inserisci n2');
readln(n2);x2=cos(n2);x4=sin(n2)
ris:=x1+x2;
life:=x1*x2+x3*x4;
writeln('La somma e'' uguale a ',life;
readln;
end.


Il cursore lampeggiava intermittente alla fine del testo della routine, scritta in lineare sequenza a scarabocchiare la bianca monotonia del monitor. Aleksej aveva lanciato la runtime, attendendo il risultato con la consueta tranquillità. Si rendeva conto che in quel periodo stava affrontando il lavoro in un modo che poteva apparire un po' distaccato, ma l'attinenza che trovava tra il lavoro che svolgeva e la sua vita privata lo induceva a tentare di risolvere tramite l’elaborazione informatica i problemi della sua realtà. D’altronde, ciò era lecito e comprensibile. Aleksej Vladimirovič era alle dipendenze della Capekprom, la company della cibernetica, che stava sviluppando progetti sull’intelligenza artificiale ed erano già stati realizzati prototipi di automi dotati di autonomo pensiero. Aleksej era convinto che il suo pensiero, abbinato ad una macchina, l'avrebbe notevolmente migliorata, più che se fosse stata dotata dei pensieri degli altri programmatori che lavoravano al progetto. Erano tutti lì, in quella enorme stanza fredda ed asettica che occupava completamente il piano sotterraneo. L'architettura dello stabile era a dir poco innovativa: situata alle pendici di una montagna, si sviluppava in altezza su più piani concentrici mentre penetrava nel profondo sottosuolo attraverso gallerie scavate nel cuore della roccia. Dentro la montagna si svolgevano dunque le ricerche più avanzate,quelle che occupavano i migliori cervelli della Russia, e in quel posto sperduto tra gli Urali erano stati radunati. L'ambiente era avvolto in un silenzio irreale, rotto soltanto dal frenetico ticchettio di decine di dita sulle tastiere. Campeggiava al centro della stanza uno schermo olografico, che era per la maggior parte del tempo in stand-by, segno inequivocabile che le ricerche erano giunte a un punto morto. Seduto davanti al proprio computer, Aleksej osservava la funzione sinusoidale che si stava creando sul suo monitor. Si trattava di un esperimento per dotare gli automi di memoria cognitiva, in modo che fossero capaci di abbellire i ricordi che, vissuti al momento in un qualche periodo passato, potevano sembrare insulsi. Le variabili inserite si riferivano alla propria vita. L’ultima parte della funzione sinusoidale era caratterizzata da frequenti picchi in salita e in discesa. Aleksej ipotizzava spiegazioni sui motivi a cui potessero riferirsi.
Le scrivanie dei programmatori erano distribuite nella stanza in modo casuale ed erano abbastanza distanti tra loro. La scrivania alla sua destra, in una posizione leggermente avanzata, era occupata da Sonja Ivànovna, una ragazza che lavorava lì da circa un anno. L'aveva trovata lì, come gradevole novità, una volta tornato dalle ultime ferie: un anno prima, appunto. Già, si era ricordato che non aveva più preso un attimo di pausa da quella volta. Sonja l’aveva fin da subito favorevolmente impressionato, così minuta e dal fisico snello, con quel taglio corto dei capelli biondi e i begli occhi azzurri, così penetranti ogni volta che guardavano dritti i suoi, piccoli e castani, che non sempre trovavano il coraggio di rispondere al suo sguardo. A parte la innegabile bellezza, Sonja gli era piaciuta soprattutto per come si era presentata, rivolgendogli una domanda spiazzante: “Programmi in Ada?” gli aveva chiesto curiosa. “Ah...ehm, no... programmo in Pascal”, le aveva risposto semplicemente, chiudendo il discorso nonostante volesse continuarlo. Lo aveva deliziato il fatto che lei lo ritenesse in grado di utilizzare un tal elevato linguaggio di programmazione. Già, conosceva la superiorità degli altri linguaggi rispetto a quello che lui adoperava, quello che aveva imparato per primo e aveva coltivato nel tempo. Solo lui programmava in Pascal; la maggioranza degli altri, tra cui Sonja, programmavano in Prolog, il linguaggio più adatto allo sviluppo dell'intelligenza artificiale. Il Pascal era un vecchio linguaggio, tipico esempio di paradigma della programmazione strutturata, che delinea le informazioni in rigorosa sequenza. Un sistema molto utile in campo economico, ma che affrontando problemi scientifici incontrava numerosi limiti. Era comunque considerato basilare ai fini dello specifico progetto che era allo studio di quell'equipe, dato che poteva implementare problemi inerenti alla conoscenza del passato. “Il futuro dipende dal passato” amava ripetere e ripetersi Aleksej, convinto com'era dell'importanza della memoria, come base di conoscenza per risolvere ogni classe di problemi. L'automa dotato di una grande quantità di dati avrebbe dovuto saperli elaborare per costruire schemi di proiezione nella risoluzione di problemi. “Sì, certo Alëša, ne son convinta anch'io” gli diceva sempre Sonja, e glielo diceva con una voce tranquillizzante e sicura, dal tono garbato, che non dava adito a dubbi o incertezze. Ma, una volta voltato il capo e non più incantato dal tono di quella voce suadente, Alëša si domandava sempre quanto ci dovesse credere veramente. Lo stava forse prendendo in giro, dandogli ragione solo per troncare lì il discorso? Forse non voleva più sentire i suoi discorsi proprio quando a suo parere iniziavano a farsi interessanti. Quando però incrociava nuovamente il suo sguardo, quegli occhi gli apparivano sinceri e subito si pentiva di ciò che aveva appena pensato.
Ore, giorni, un anno. In quell’anno, vicino a quella ragazza, Alëša pensava che l’avrebbe potuta conoscere meglio, ma durante la giornata lavorativa si scambiavano solo poche parole, che riguardavano per la maggior parte suggerimenti sull’impostazione del lavoro. E sì, che poteva fare di più, poteva e voleva conoscerla meglio. Quello odierno sarebbe stato il gran giorno.
Ancora seduto, lo stato di agitazione che Alëša ben conosceva iniziò ad attanagliarlo: le estremità delle mani iniziarono a raffreddarsi e una sensazione di brivido diffuso attraversò tutto il suo corpo. Si alzò, cercò di rilassare il respiro e si avvicinò alla scrivania di Sonja. «Ehi, senti, fai la pausa pranzo?»
Lo guardò con aria curiosa Sonja, perché era la prima volta che il suo collega le si rivolgeva a quel modo. «Certo!» disse lei.
«Bè» riprese Alëša, «penso che andrò alla mensa. Hai presente la mensa? Al 52° piano. E’... carina, e si mangia bene». Sonja lo guardava sempre più incuriosita, e Alëša, investito dall'arguzia di quello sguardo, si voltò un attimo per prendere coraggio. Alfine riuscì a dire: «Vuoi venire anche tu?pranziamo insieme». La parola insieme, che fino a quel momento si era proibita, assunse un'accentuazione marcata, dal tono goffo e strozzato, ma finalmente era riuscito a pronunciarla, ipotizzando che potevano fare qualcosa insieme.
Poche speranze, comunque, aveva Alëša che la sua proposta sarebbe stata accettata. Troppo abituato era ai rifiuti e sapeva di essere poco convincente, nelle sue richieste. Ebbe subito un ripensamento, temendo dentro di sé che, a seguito del rifiuto di lei, non avrebbe più avuto il coraggio di rivolgerle la parola. Mentre si preparava all’addio da quella cara visione, la voce di Sonja risuonò suadente alle sue orecchie: «Ah, buona idea. Non vado mai alla mensa, mi porto sempre qualcosa da mangiare al volo. E su, al 52° piano, c’è sicuramente una splendida vista sulle montagne innevate. Ma sì, andiamo». Stupore misto a gioia imporporì le gote di Alëša. Il primo passo era fatto, ma ora iniziava la parte difficile. Sarebbe lui riuscito ad intrattenere la ragazza per tutto il tempo, senza annoiarla?
Nessuna difficoltà, invece, si presentò. Le chiacchiere che si scambiarono durante il pranzo furono amabili per entrambi. Lei sorrideva e si divertiva, e tanto ad Alëša bastava. Presto, il dialogo iniziò a vertere sul lavoro. Sia Aleksey che Sonja amavano il proprio lavoro, ma mentre lui all'indubbia perizia e competenza univa un formidabile intuito nella rapida risoluzione dei problemi, Sonja si approcciava al lavoro con un incredibile senso del dovere e di abnegazione, che spesso la portava a passare notti in bianco finché il problema non fosse risolto. Una passione innegabile la pervadeva, in quello che faceva, unendo a ciò una logica perfetta ed una elevata professionalità. Ratio e fantasia si univano in quella ragazza, e Alëša l'ammirava incondizionatamente per questo. Capitava che lavorassero insieme a progetti e spesso, mentre Alëša tornava a casa dopo anche alcune ore di straordinario, non era strano che Sonja passasse la notte lì, a completare il lavoro.
«Hai sentito il problema dell’ultim’ora, Alëša?»
«Beh, sì, non si riesce a innescare un sentimento agli automi»
«Nello specifico, si tratta del sentimento amoroso. Insomma, gli automi non riescono a innamorarsi»
«Già, robot caratterizzati da sessualità maschile e femminile, messi in relazione, per quante combinazioni caratteriali si prevedano, non manifestano di potersi innamorare l’un dell’altro. Sì, conosco il problema, anche se non l’ho studiato. Io mi occupo di memoria cibernetica»
«Non è questo il punto. La memoria è importante, anche per l’essere umano. Insomma, nessuno di noi cancella i propri ricordi, anche in presenza di un nuovo amore. Secondo me dovresti impegnarti anche tu nella risoluzione del problema. Potresti darci un aiuto consistente»
«Sì, potrei studiare la cosa»
«Ne sono convinta. Dai, torniamo giù»
(1- continua)

1 commento:

Lenabuona ha detto...

Che cosa dire, sono ammirata. Vaaai!!!
EvaFutura